la solita mansione. anche oggi ho assecondato il cervello che si sarebbe ricordato quell’ottima idea, orfana, abbandonata alla sua natura astratta. corrugo la fronte e ascolto la densità specifica del mio respiro, non come spostamento di massa d’aria, ma come azione muscolare, come gesto esistenziale. niente è come la coscienza di cosa sarebbe stato quel momento avessi potuto essere lucido, rendermi conto del potenziale in tempo presente. l’ennesima occasione sfumata, l’ennesima decisione importante affrontata di fretta, tutto e subito, e il giorno dopo il niente, e le passeggiate tra le mura di casa. è come un sasso, appoggiato sopra la tranquillità. prendo un libro e cerco di leggere un pagina, e subito il sasso riporta la quantità del suo peso, in grammi, scritto in fronte ai miei occhi davanti le parole, a raccontarmi la trama dei miei pensieri, cancellando quella del libro. mi impongo di ridurre i contatti, non ne posso più dell’ego altrui. fosse questo come un errore grammaticale in un bel testo. sembra di rimpiangere qualcosa, ma proprio come quel momento in cui mi convinco che mi ricorderò quella bella idea che ho avuto e sono assolutamente di fronte al non comprendere quel che ne é della radice alla quale la mia emotività, quale ramo, ne appartiene. è una giornata di sole che sa di pioggia. le ossa non si riscaldano e non parlano più con i muscoli loro attorno. non posso mentirmi e guardare dall’altra parte. qualcosa non funziona.
si scalda lo sterno. quella sensazione di felicità appartenente alla memoria inconscia infantile. tutta descritta nel suo sorriso. illudo ancora il me di una deriva esistenziale, quale questa proscenio del suo sblocco, della comprensione di un mancato singhiozzo mentre sotto gli occhi si riempie di qualcosa. forse questa volta non mi sto illudendo. forse invece è il solito percorso. ma la confusione di questi pensieri ci riporta al non sentiero, al percorso in quanto credo, non in quanto a pratica o mezzo. scuoto forte la testa e riporto l’attenzione a qualcos’altro confondendomi di più, ancora. non c’é mai stato bisogno di raccontarsi tutto subito, la comprensione è come il bambino che impara a camminare, che quando ha vent’anni ancora ogni tanto cade. il tentativo si ripropone emotivo. con la parola a servizio di questo, in cui il linguaggio viene fintamente privato della sua razionalità a servizio di un vaneggiamento. sono come i capelli nelle giornate di vento. è come il colore del mare osservato da vicino, fino a quel punto in cui poi ricomincia ad essere uno specchio. quante volte mi sono convinto di averci lavorato tanto, di avere un forte dunque in mano. è un suono contenuto in una sensazione. come faccio a descrive una vibrazione a parole?! è il solito dilemma. sono le solite questioni.
il prossimo obbiettivo è continuare talmente tanto da dimenticarmi tutto. devo dedicarmi a quella sensazione sotto lo sterno. sembra il perfetto carburante per la mia temperatura interna. non ho memoria di occhi che mi guardano così, nonostante siamo giovani, nonostante ognuno abbia i propri pensieri. ricollego tutto al ricordo del colore che rifletteva il mare quando il sole gli tramontava dietro. cercherò di concentrarmi fino a dimenticare il mio nome. mi ricorderò di quelle notti in cui mi stendevo accanto alla massa buia del mare, così che mi permettesse di osservare le galassie. ne riparleremo quando, adulti, non saremo ancora diventati grandi.