ballare forse mai

non era inverno e non era autunno. ero convinto di aver già coltivato il mio campo ma invece mi sbagliai. mi ero persino dimenticato di vegliare su quello che avevo già raccolto. era tutto freddo come le motivazioni delle persone con cui vivevo. netti compratori di immobili. non mi interessava far esercizio di stile. nuotavo nei miei desideri  come il pittore ammirava i colori delle piume di un qualsivoglia uccello. ridevamo della grammatica. non c’era motivo alcuno di essere fieri dei posti che frequentavamo. mi tenevo spesso sveglio per farmi venire delle idee insolite. riposavo comunque molto e nessuno voleva farmi lavorare. era il periodo di vacanza che tanto ebbi bramato. quei viaggi in treno erano il massimo dell’angoscia. ma sorridevo perchè mi riempivo di sogni. illudevo quella mia così precisa percezione. molte persone non capivano ch’io potessi essere. per loro era insolito avere a che fare con una personalità ch’avesse una forma propria. non c’era motivo di ridere se l’occasione non s’era affatto presentata. nostalgici imitavamo il caffè esclusivamente a casa ricordandoci il sole delle nostre infanzie, che tipicamente mancava nei suoi coetanei in quelle lande. ragionavamo spesso su come avevamo preferito spostarci tra le iniziative e quelli che parevano entusiasmi. volevo stare solo sempre più spesso. non trovavo mai grossa motivazione nei concetti altrui. c’è chi addirittura leggeva romanzi come fossero manuali di un movimento. e questa era quanto meno poco opportuno. è quando mi accorsi che quanto potessero scoprire in questi libri era fuori da ogni loro definizione citata che capii che era sì opportuno che mi sentissi comunque e sempre diverso; lo giustificai. piangevo a casa imitando la pasta. non riuscivo in molti modi a costruire un’ipotesi di mia possibile ed integra esistenza all’interno di quel misero insieme. misero insieme di ancor più miseri componenti. non mi ricordo che mese fosse, ma la percezione cronologica era comunque in ritardo sempre alla realtà. o meglio, a quella che era la mia realtà, che costruivo come tale. un altro così lungo periodo di nulla sarebbe stato atroce per la mia capacità di comporre. il forte vento  mi teneva sempre in piedi. il mio poco impegno era bello agli occhi di molti. io non mi piacevo e cambiavo continuamente disposizione delle cose nei miei spazi. lo trovavo quasi patologico. rubavo i coriandoli di un amico per sporcare l’insopportabile, ripetitivo e malato sempre uguale ordine delle cose. mi affezionavo moltissimo a quei pochi oggetti con cui mi trovavo bene. l’equilibiro di molte cose lo consolidai quando decisi di prendere aria dalla lunga uscita all’aria aperta durata quasi un intero anno. cercavo spazi all’aria aperta all’interno di quelli che dovevano essere, e che si dimostravano comunque, gli unici spazi all’aria aperta presenti. non era stato un ottimo periodo. il primo inverno della mia vita; questo anche fu. nessuno si capacitava di come potessi io concepire la vita in quel modo, al mio guardare così naturale e spensierato, proprio perchè dov’ero non esisteva naturalezza negli esseri. chiudevo molte porte perchè mi dava fastidio scambiare quattro chiacchiere confezionate. non facevo dunque molto. continuavo a fare sogni che non esistevano in un paese in cui anche i sogni avevano prestabilita colllocazione, carenza di bellezza. il loro fascino era stuprato dalla conoscenza di una lingua ignorante. ed io, mi compiacevo dei miei occhi. non era certo come il marzo dell’anno prima. e non spegnevo mai la musica. preferivo immaginarmi con essa nella dimensione di come io potessi esprimermi. sono convinto che fossi l’unica persona su due piedi che non lo fosse per costume. desideravo i gatti come perfetti coinquilini. andavo lontano solo quando faceva buio. c’erano scogli nelle mie ferite. io non volevo nuotare nel fieno. baciai la fronte del mio specchio e pensai ch’era meglio così, che fossi solo e senza apparenti perchè.