quale colore la nebbia stasera. quale forma il respiro ancora. dove andavo io, corpo di cane. l’intuito si è rivelato espressione ebete, secondo sprecato; accanto non so. poi il tavolo, noi tre seduti ed io guardavo per terra e voi discutevate. io guardavo per terra e l’amico lavorava. mi guardavate e probabilmente pensavate che era un pò che non mi vedevate, sai com’é. continuamente pulivo le lenti, gli occhiali meglio sul tavolo. e io che faccio il contrario di quanto dovrei, quasi ausbergico essere, io ultimo ignoto immondo, che non crede nel sé fuori dalla sua espressione più mera, folle atroce colata di asfalto sulle delicatezze a contrastare i difetti, gli errori buoni, naturali. mica pioveva, ci regalava respiro nuovo, serio. non stacco gli occhi dalle linee dei pezzi di legno, voi bevete pure. dove ero mi piaceva. nella strada la coltre che evapora dai pori del mio viso, ricopre le mie buone intenzioni. non era sera purtroppo, la direzione nostra è sempre stata sbagliata. “it wasn’t me that phoned.” se mi hai visto sorridere chissà cosa stavo pensando, userò la scusa per avere qualcosa di cui parlare, sai. sembra che io faccia il contrario di quello che voglio, monografico modo di raccontare. poi a me, sai, prende sempre alla bocca dello stomaco, ma non te l’ho mai detto. sono timido, ma non te l’ho mai detto. immagino la tua figura nelle varie situazioni che vivo, come viverle in due, ma non te l’ho mai detto. sarà poco sonno anche stanotte, e il poco tempo che, in questi giorni, già, mi rimane, dovrei sfruttarlo; vorrei parlarti. scemo mi dico; anzi no, imbarazzato. sempre.