che fretta c’era?

meraviglia. stroboscopicamente il mio viso viene accecato, riprendo lo sguardo e scorgo un ostacolo. di scatto lo evito e così continua per chilometri; strada facendo continuamente mi ripeto che sarebbe ora di fare attenzione, conoscendo i pericoli del non guardare la strada che si percorre. mi siedo a far pausa su un’abitudine, sorseggio acqua come se avessi sete, quasi mi vergogno ad agire così meccanicamente. un lampo di luce a ciel sereno, la famosa metafora prende forma al mio risveglio, sono pochi i secondi in cui non capisco quello che vedo; come poche altre volte nella vita devo chiedere che mi venga ripetuto quanto appena perso. un fiore si piega al peso dell’acqua, ed il giovane che si sente sensibile ne accarezza i petali che trattengono l’acqua, sorride e guarda al di là dei limiti fisici che gli impediscono di essere dove lui creda che possano esistere i suoi desideri, egli, stolto. uno sguardo dedicato al vuoto, rende perplesso il passante che apre la bocca. gli occhi si incrociano e il vento non è sufficiente a mantenere la veglia. il villaggio dei pazzi si popola di persone ben vestite, comuni. la nuvola silente si deposita sul ciglio di un ricordo nostalgico, a far ombra sul nulla, con il suo bianco, anzi ad amplificare una luce già fioca. tutti urlano e le loro labbra sono immobili, lo scurire si infittisce. non mi sembra opportuno sostare allo sguardo di chi si ciba e veste i morti. i sassi implacabili tormentano i miei piedi quasi scalzi, a contatto con i difetti della loro stessa forma. stiamo cercando una casa completamente composta di legno, per annusare la verità. a velocità folle scorgo i cambiamenti delle forme, le macchie e le crepe che necessariamente devono mutare. forzo quindi i discorsi e veicolo le tue azioni ed i tuoi pensieri al mio volere, ai miei desideri. ho sbagliato i tempi della discesa, mi trovo sconsolato in largo anticipo alla domanda che già ebbi rimandato; è una domanda semplice, a riguardo di come impiegherò il mio tempo anche oggi. un racconto che si è perso nel vociare sempre presente che tormenta le mie ore lavorative al tuo cospetto, al contemplaménto delle tue forme proiettate scure in un ambiente illuminato dal rimbalzo di un riflesso già scialbo. la stanchezza non mi permette di godere di un bel tempo ormai sempre presente, che deve farci dimenticare che stiamo male. farò collezione d’intenti per le mie future passeggiate, osserverò con cinismo severo quei passanti che continuamente rimandano l’ascolto del sé. persone che sembrano troppo stupide da non essere stupide quando serve che lo siano. ho costantemente bisogno della musica per ricreare quello che dovrebbe essere il mio stato meditativo ideale, per il semplice motivo che gli altri sempre non sanno essere silenti e si circondano di rumori inutilizzali ad altri scopi che non siano poi il mero disturbare e richiamare a sé l’attenzione dei poveri presenti. forte ho sentito un brivido mentre osservavo delle ragazzine con il viso piegato su un lato, a ripetere insieme delle parole, a guardare nel vuoto, a cantare parole di un ragazzino distante da loro. come una corporazione ha potuto raggiungere le emozioni di una persona? piuttosto: come una persona non ha saputo evolvere le proprie emozioni? la corsa del cane ad occhi attenti. le macchie che le scarpe spostano. le strade completamente deserte la notte. le persone che ignoriamo quando non consideriamo le innumerevoli mura nell’intorno. non abbiamo mai saputo renderci conto di come siamo circondati ovunque di situazioni e storie che seguono un corso preciso, spesso contrario ad alcune aspirazioni culturali dei soggetti interessati. oggi solo tu ti sei appoggiata alle mie colonne, tu che hai poggiato anche il dito dove nessuno era mai riuscito; dovrei parlarne io dei miei mondi, tenerli chiusi nella mia scatola cranica è stato, è e sarebbe un disastro. piango lo spazio che non posseggo per dare forma ai mostriciattoli che mi fanno sorridere, che permettono ai miei pensieri di materializzarsi senza la presenza del mio viso. disperatamente provo a comandare i movimenti dei miei pensieri, tento l’invocare desideri appartenenti a piaceri inesplorati. orrori continui si proiettano ad ombre nella camera del bambino che, non impaurito, scruta la sua percezione. speranzoso mi affaccio alla finestra, continuamente mi chiedo quando potranno essere allietati i miei desideri, quello che percepisco come bisogno. il colore segue la discesa, cola e descrive quel percorso che niente e nessuno ha mai fatto. il polverone che viene alzato dal vento tinge e personifica i pensieri di una figura immobile, che sbatte le ciglia a ritmi lontani, nel mezzo di una strada carrabile, illuminato da luci alte puntate a quarantacinque gradi sul viso. c’è bisogno della lenta gestione di tempi brevi, di un affanno prolungato alla tachicardia, di un singhiozzo nervoso. per evitare di ripetermi mi stendo per terra. continuamente gli occhi cercano di chiudersi mentre leggo, appoggio la testa e non dormo. mi fai delle domande precise e sempre mi chiedo se queste siano modi indiretti per chiedermi qualcosa o stai parlando di qualcuno che non hai mai citato. ci sarà bisogno che mi prenderai la mano; questo è sufficiente.  ci siamo detti che avremmo percorso tutta la strada insieme. arrivo puntuale e mi dici che non ce la fai. mi basavo sui tuoi denti a nascondere un labbro, a mordicchiare la pelle. solitamente il corpo non sa mentire.