invidia, subito doppiata dalla tachicardia di una certezza.

se abbiamo sorriso anche solo una volta siamo sicuri di camminare in mezzo agli stessi flussi energetici. scriviamo, noi tutti, dello e nello stesso immaginario a cui affacciati cerchiamo il nostro futuro. ci facciamo vedere sorridenti per assicurare che in noi tutto va bene, così chi ci guarda potrà prendersi la libertà di pensare che in noi c’è qualcosa di acquisibile. ho fatto inventario di tutti i dissapori che il mio cervello sa farmi vivere, li ho archiviati in un cassone: ho letto e riletto i presunti patemi, ho dato retta al tremare delle gambe, questa volta era il tempo di capire cosa fosse in grado di muovere quel mio lato rimasto ragazzino. non mi sono guardato allo specchio interrogandomi chi fosse quella persona che mi prendeva in giro, perché oggi so che questo realmente mi chiedevo. il traguardo non esiste, questo mi rispondevano i miei occhi. la verità non è quantificabile se non in quello che credi, sempre che tu ti ponga capace di discuterlo con costanza. quel tuo io che hai solo intuito e che ogni tanto ti ha dimostrato la sua forza è una bestia capace, che attende il suo tempo e che pecca spesso d’eccedenza perché costretto ad uno spazio espressivo ridicolo, ma fortunatamente senza palco. riflessi sull’acqua che si muovono piano e solo a distorcere quelle certezze che la tua razionalità ha bisogno di portarsi dietro. siamo tutti combinati male e abbiamo tutti voglia delle stesse cose. certo, consideriamo il nostro insieme e chi facendone parte ci permette di non abbandonarci completamente alla misantropia del nostro io, all’abisso di quel pozzo da cui non ci rendiamo conto di bere molte volte. un saluto alle mura che hanno covato i nostri ricordi, che ci hanno permesso di giocare e sognare quello che non saremmo voluti essere una volta grandi. i palloni di plastica che sapevano di morte e il nostro squarciarli sotto il sole che temprava le nostre energie che ad alcuni consigliavano manifestazioni d’irriverenza, ma si sa, signora, che i tempi cambiano e le vostre esigenze sono state spazzate da mezzi più forti della vostra educazione. calpestavamo i fiori perché ce ne erano in abbondanza, non ci saremmo mai potuti porre il problema che un giorno avremmo potuto non vederne più se non in plastica nei nostri salotti con i mobili usa e getta. il tramonto non è venuto per ucciderci, non dovremmo temere la sua presenza mentre i nostri piedi nudi colgono l’importanza di quello che ci è mancato. noi, non conosciamo il limite dei nostri limiti; e chi si ferma al principio di questi, mi rimanda a una distesa d’immagini raccolte negli anni di persone abbandonate da se stesse su sedie di vimini e vestite dei tessuti della nonna della nonna, con quel bagaglio di conoscenza manuale che è quanto di più sono capace di invidiare nel mio essere giovane e lento nel trovare una strada in quella società che non ci sa far stare con i piedi per terra, che non ci permette di seguire quel sentiero che ci ha ispirato. si alza un alito di vento e subito tutti hanno freddo. mi si incrociano gli occhi e la testa tende al mio petto, gli occhi latitano dai principi del proprio senso, mentre tutti si svegliano e iniziano a vivere la definizione di giornata. questo non mi permette di collezionare ricchezze che possano testimoniare il mio essere in questo mondo, ma mi sento più ricco di molti, nel mio cibarmi degli istinti di alcune idee. forse mi sono offeso, nonostante giurai che di rado sarebbe mai stato possibile. la collezione di sguardi che non ti ho regalato è custodita con la chiarezza del colore dei miei occhi, che descrive la trasparenza della mia anima, e l’emulazione del mare quando mi muovo. se potessi parlare di quello che vedo ad occhi chiusi, capiresti perché non ti posso rispondere mentre investito dall’acqua nel buio dell’altrui esistere. chi ci accompagnerà quindi nell’imminente disastro di cui abbiamo solo assaggiato il potenziale? chi si è dimenticato il mio nome? sembra non sarò più in grado di mantenere un certo passo con la forza di una sola persona, è per questo che ti guardo. sento l’urlo dei piedi dello spaventato. non esiste relatività, per un punto di vista che riesco ad immaginare, ma che, certamente, non so immaginare a parole. abbiamo reciprocamente abbattuto il finto limite di quello che ci si dice, ma non abbiamo mai parlato di quanto io ci sia nel tuo respirare poco prima di addormentarti. certe cose le ho fortunatamente solo sognate, ma la tua pelle è sicuramente una dimensione su cui potrebbe germogliare il mio amare. il mio non è un tentativo, la mia è una domanda. non inciampare sui veli delle mie paranoie che trascino a spasmi di chiarezza. rimprovero la mia calma, e forse il non averti mai avvolta con le sole braccia. non è nel mio stile, mi rifaccio a un senso d’eleganza che non esiste, è il mio punto di vista che tenta di porsi come condivisibile, ne fuoriesce l’impaccio del timido. mentre cerco una degna conclusione mi permetto di sognare al nuovo inizio che vorrei scaturisse. siamo tutti soli quando raggiungiamo un luogo e non riusciamo a fare quello che ci eravamo prefissati. le distrazioni diventano più importanti.