la voce degli omini impersonali. la voce impersonale dell’omino.

e così ci siamo appoggiati allo spazio bianco. quello che dovrebbe essere lo sfondo di quanto sia ciò che viviamo, come dimensione, tramuta nel nostro sostegno. un lembo di pace nei confronti di quanto siamo obbligati a vivere, chiaramente a noi inaccessibile, ed incapaci di comprendere la sua effettiva esistenza; che non sia anch’esso l’ennesimo scherzo ottico. il nostro mondo è giovine, evolutosi parecchio in fretta, sempre riconoscibile e poco invitante da vivere, comprensibilmente. le nostre composizioni sono il perfetto esempio di come nella nostra società non ci siano praticamente gerarchie di alcun tipo, anche le differenze di grandezza non diventano rilevanti e/o motivanti di nuovi sentori, di una diversa percezione dell’altro e quanto segue. ognuno è sostegno fisico di qualcun altro, e, talvolta, viceversa, nell’assurdo di questa affermazione. è un’esistenza votata alla composizione stessa del nostro sostare, siamo mattoncini di un assurdo composto. niente di accomunabili ai vostri “lavori” o creazioni divine. non ci sono ombre, le nostra percezione dello spazio è continuamente stimolata da quello che stiamo sostenendo, da quanto ci obbliga ad appartenere a quello che siamo fisicamente nel luogo dove abbiamo trovato posizione. non è rapportabile a sensazioni di qui mi parli spesso tu, che spesso condizionano il tuo vivere.  il nostro vivere invece è differente. molte volte non mi sembra sia importante neanche parlarne, avremmo anche dell’altro da condividere riguardo la nostra percezione delle cose. il mio universo è assolutamente la cosa che ti è più vicina e noi non parliamo mai; probabilmente non c’è neanche alcun bisogno di farlo, in effetti, non abbiamo molto da dirci.

viola e disgustoso, si avvicina a gattoni un muro forato, sembra avere l’intento d’investirmi. sbatto le ciglia un numero di volte sufficienti a permettere agli occhi di non mostrare niente, se non il loro naturale colore, a me, sempre incantevole. si avvicina il vento ghiacciato, mi ricorda la nascente primavera di un posto dove fa veramente freddo. noi attorno al forno, quasi a pregare quanto stessi producendo. la musica nell’altra stanza sempre ed esclusivamente alta, a dar fastidio, naturamente. complimenti e convenevoli e manciate di <come va?>. finalmente vedo quel volto, ma solo per un frammento di secondo, senza maschera; un incredibile conquista dove trova magna forma la resa, il dietrofront. dopo quell’istante è tornato l’eterno sorriso, il bilanciamento psicosomatico all’umore da formalità, alla più comune presa in giro. e via, come già impiegato si riscopre il saluto che, se non per sbaglio, talvolta, non ho mai saputo fare. è triste, doverne venire a capo in questi modi, all’antitesi del chiarimento vocale, espresso. oltre il rispetto che ne converebbe ai confronti della parte lesa viene immagazzinata anche una notevole fetta amara ripiena di quei tanti gusti che ricordano una lievitazione trasparente a presunto dolce ultimato. la chiarezza viene come al solito fatta in private riflessioni, completate dallo sguardo degli amici nel come e nel quando non ci fossi o semplicemente quand’é che v’ero ma distratto, e capitò. si manifesterà allora in me sincerità, d’ora in poi, al tuo incontro quando t’abbaierò, cagna. terminerà anche questa stagione, tra una pacca sulle spalle e l’altra. accenderei un fuoco per avere da fare qualcosa di sensato nelle prossime nove ore. tarli che crepano i miei sostegni. insetti che annidano tra le mie vesti. si smuove nell’energia quel qualcosa che preoccupa, quella brezza di cambiamento tipico dell’epifanie dell’ognuno, grandi o piccole che queste siano. interi templi di contemplazione al disastro di chi ha saputo operare nell’ambito. la tua prossima richiesta sarà esaudita. basterebbe una domanda di una parola a farmi capire cosa vorresti. niente inutili formalismi di un altro secolo. allora risponderei con una sillaba, chiaro e senza baci. crudo e senza lodi. quanto il tempo buttato dalla cima dove, calmo, risiedevo. mi sono distratto, e non ho accudito i mostri sotto il letto, affamati, sempre, loro delle mie storie. non credo sia il modo di concludere, ma mi alzerò dalla sedia adesso, stanco di pensare a chi non mi pensa.