quattro volte in quattro giorni.

la soddisfazione si riconosce nel forte soffiare del vento, a cielo limpido il sole nitido descrive: tutto si muove violento, trascinato dall’essere più profondo. quando l’inanimato prende ciclo, muta il suo non essere a favore di una mancata percezione del moto, del cambiamento. il suono alimentato dalla stessa forza che muove, doppia virtù di un’energia pura. i miei occhi sensibili a riparo da quanto è più sottile della mia concezione volumetrica dello spazio; così consiglio allo sguardo l’alimento principale per quanto non dico: cosa non dico quando parlo. il mio occupare muta continuamente nonostante io sia immobile. non tutto quanto posseggo è a me controllabile. lancio il mio pigmento a servizio di un futuro impercepibile, lieve e fondamentale mutazione della storia degli eventi; decisione da cui è impossibile esimermi. come quando scelgo il luogo in cui sostare, a speranza d’incontro gradito. un fuoco celebre illumina il mio volto, sempre più staticamente espressivo, autosufficiente alla non comprensione della chiarissima mappa emotiva su di esso coscritta insieme a quanto è stato pensato. non riconoscerai il fastidio nei miei occhi quand’è che osserverò quell’espressione vigliacca ad occhi dolci su di un volto che, giustamente, dolce non è. il male che ti sei inflitta ha disegnato il corpo, non vedo per quale motivo una tale pratica debba andare avanti. mi trovo costretto a ripeterlo: non cercare negli altri quello che vorresti trovare in te stesso. allontanati dal palco, anche se mi conosci non è detto che sia opportuno avvicinartici.

ci sediamo per un caffè, discerno i tuoi umori dall’aggrottare delle tue ciglia. la sala è vuota, il mobilio ripercuote sul costo delle nostre consumazioni. vicino un tono di discorsi opaco, di senile freschezza. i mesi in cui non abbiamo parlato hanno prodotto un non enunciabile insieme di eventi ed esperienze: il nostro vissuto così distante, i diversi ambienti così sconosciuti gli uni dagli altri, il nostro essere così simili, nei pensieri più intimi, nel rimpicciolire lo sguardo, a concentrarsi su chi, davanti, ci racconta qualcosa di riconducibile al fascino nascosto dall’apparire, ahinoi, dalle nostre parti, così presentemente importante. non è stato difficile sbagliare strada, saltellando tetro in una nebbia ad anticipare l’inverno in ritardo. i colleghi rumori prendono possesso di un nulla attraversabile a passo diafano, percepibile ad empatia. colla per i movimenti, il continuo essere osservati; assoggettarsi per bloccare il respiro, per essere completamente a servizio di quella forte paranoia che circoscrive i pensieri; il limite crudo di un sapere volubile all’inutilità, alle faceziuòle. spirito de noi altri, chiama la tempesta, per colorare un cielo di espressioni che smuovano quel dannato sorriso che c’hanno tutti indosso. i cani, essi, fingono d’esser capaci di arginare pulsioni feroci. nascondono la faccia dietro la mano, ignari della profondità del nostro respiro. giocano con gli ami a tentare d’abboccare la nostra rabbia, loro convinti che questa sia ad essi disponibile.

lealtà contratta da uno squilibrio di previsioni, umori contusi per un impegno già forzato. mediocre prestazione a dissapore di un risultato inconsciamente previsto, a volersi male perché la vita non ci vuole. chiare allusioni alla speranza di un futuro in cui non credi non mi convince riguardo la tua conoscenza delle concezioni prospettiche. seminare campi deserti a scopo di una provocazione rievocativa di indigestioni di risultati concreti, in un panorama fatto d’idee, sembra una mossa da qualunquista d’accademia; pieno n’è il globo. ci hanno preso in giro, noi mangiatori di pezzi di carta. hanno cercato di dare senso a casualità sboccate, padroni di poca sostanza si sono affidati al più che naturale corso delle assurdità, convinti fautori di un raro magheggio di condizioni. calcolatori di parole, il giudizio corposo di un vuoto culturale atroce pone luce su quello che più generalmente, ed ampiamente esteso, sia l’incapacità intellettuale di gestire quel sapere veicolante, portatore di mezzi, evocatore di sospiri. aspettavi che il legno parlasse, avevi sentito di particolari visioni ludwighiane nel fresco del periferico bosco. canti di un’era nuova, povera di significati pagani nel percepire. abbiamo altri vaneggi da persuadere. lascia cantare liberi i ragazzi, sono profeti di un nulla affascinantissimo. se ho capito di non essere come loro è perché quando ridevo non svuotavo la mente.

fiero l’occhio si commuove. cerca riposo in una vita continuamente stressata, a ritmi lontani dal biologico concepire. fumate forti assecondate dal vento sollecitano il mio respirare ad affanni sgraditi; virulento comportarsi nel continuo ignorare la presenza d’altri, fondamento dell’agire dei troppi, in un contesto sempre più affollato. dovrei non troppo sforzare la fortuna di poter godere di un silenzio energetico nel mio raggio di movimento. mi sento pulito ed evito con il percepire i contrasti con quelle forze che sporcano il mio varcare gli spazi. lievito madre del mio fissare è quell’intenso blu mare che non riusciremo mai a fermare. il colore che i miei occhi hanno saputo imitare. il fondamento basale del mio essere, la densità della mia anima, forma del mio amare ad accarezzare in modo complementare, non dimenticando alcuna curva. sapore di una terra abbandonata alla gestione di un immonnezzàio persistente nel disturbo. ti vedo a distanza e sorrido, volgendoti quella sensazione che ci regala il vento quando accompagna la salsedine sulle labbra cariche di sole. non ho dimenticato di osservare il modo in cui cammini, nel frattempo, tenendomi sveglio a fatica, concentrando la presenza sanguigna altrove. non ho saputo tenerti la mano quando me l’hai offerta; la mia timidezza ferisce le mie qualità a favore di una schizofrenia di risentimenti. sguardo basso e ripercussioni al cosiddetto groppo. il collo perde tensione, le vene inarcano il loro sostenere. farai fatica a guidare nel buio stasera, mauro.