sé; tu.

ripiego sul conosciuto sentire. la lontananza ai miei sensi allarga come restringe gli orizzonti. certi distacchi nascono dal forzato scostare un problema, che sia un rimando o che sia espressione di un’incapacità. ne emerge soprattutto l’operare alla bocca dell’intestino, e quanti di questi momenti a rodere l’insicurezza; l’acido che cerca di digerire dei pensieri non può quindi non operare fisicamente su dove si esprima, e quanto nei dubbi poi ne deriva. trema la corazza del famoso guerriero che non ha mai combattuto, le quali capacità e forze ne vanno di quanto s’è sempre narrato, basandosi su di che non sempre principiò dalla mente dello stesso; semplice vittima dell’espressione del proprio sguardo, del proprio io. è iraconda la reazione a sfavore del proprio corpo a sostenere l’impiego, viene maltrattato nonostante sia l’unica fonte di linguaggio non verbale a permetterci di sentire e capire che in questo momento qualcosa non va. si ferma allo specchio, non può non lavorare sulle proprie chimere, esercito che sputa fuoco su chi crede di conoscerlo. gli arretrati si accumulano e ne risente, lo status malato trascinato a peso morto per i capelli, bagaglio scomodo sempre allocato alla propria presenza, necessità per una demone che si controlla. tale fatica ne propone la forma, quell’anima descritta dai tratti di una sofferenza quasi invisibile. forte quanto sensibile, racconta a se stesso il tentativo di scoprire la verità delle cose, smascherando quella che quotidianamente viene raccontata e spacciata per tale. ogni tanto sentendosi ingenuo si chiede dove abbia lasciato quanto gli permetta di non sentirsi abbandonato. egli è capace di raccontarsi molte favole, curioso di cosa il proprio limite gli possa offrire, da quel corpo che tanto odia e sfrutta quanto ama senza soste, cosciente del valore di ogni suo respiro. obbietta la vera presa di posizione nei confronti della costruttiva accettazione dei propri errori, continuamente cerca l’appoggio di quello spirito ai suoi occhi nobile che lo possa sostenere perché sempre ripone a camminare su quella linea scomposta che si affaccia sull’abisso che tanto lo affascina quanto lo consuma. lettere continuamente spedite a quel vuoto, lo sguardo eterno perso quand’è che non può affrontare gli occhi che sempre affannosamente cerca. egli si lamenta di ogni cosa, conscio del non saperti descrive il peso che aggrava sulle sue palpebre e quanta fatica si possa porre al perenne mantenerle aperte.

sempre parliamo di quanto sia cosa e quanto faccia come; come in ogni momento una grossa porzione dei nostri pensieri si concentra su un qualcosa costantemente attraversato da un’esclusività tipicamente soggettiva. poi succede che come poche volte rispetto al sempre gli occhi si incontrano, forse completamente, o forse sempre concentrati su uno dei due soli e reciprocamente. in quel momento magari non sei convinta dell’esposizione del tuo corpo rispetto al muro espressivo che te ne pone quesito. collaboriamo alla costruzione del nostro io, entrambi; ma c’è molto altro. come avrei potuto non ottenere lucidamente l’offerta scenica del tuo posare? e quanto me ne chieda sul tuo porti certi quesiti senza parlarne. ne prendo appunto per la descrizione di qualcosa che mi impongo di vivere, che infila motivazioni allo stare immobile quando gli occhi sbarrati si abbandonano alla proiezione dei sogni a luce spenta. la temperatura del corpo è la dimensione che vogliamo vivere, e la sua nudità ne è mezzo unico. impossibile è bypassare quell’impulso risvegliato dal tuo locare, mentre descrivo quanto mi ha reso inerme. colleziono il vero sapore di una verità che va pagata cara, essendo merce di inafferrabile valore. attraverso il tuo ridere sono sicuro che in quel momento tutto abbia senso, e allora, dei miei problemi, in quel momento, faccio l’errore di dimenticarmene.