cento.

come spesso, era ieri sera che aggirandomi con l’auto mi sono venuti in mente dei pensieri stimolanti; come spesso accade, riprendo, era una situazione in cui non avevo o non potevo scrivere. e quel paesaggio, quella musica e quell’umore non si sarebbero riproposti una volta a casa, nonostante il forte sforzo a mantenere quelle idee così sincere, vivide e capaci di impressionare la grazia che spesso ignoro o non valorizzo. mi dico che al mio risveglio mi ricorderò quel concetto; e come un sogno, una volta sveglio, si è dissolto tutto nei suoni della luce. senza troppe parafrasi, ho fissato degli occhi neri carichi di curiosità; perplessi attendevano una consueta carezza all’animo, in tormento da se stesso, che continuamente è affascinato negli altri da quanto vorrebbe scoprire in sé, povero animo nostro sciocco. dallo specchietto allora ossevo risate che ad istinto invidio, subito dopo correttomi nell’atto di collocazione di quanto appena intuito in quella sfera da cui sento allontanarmi, che sento presente in tutti, in tutte le loro dinamiche sociali disgustose. non riesco a vedermi partecipe in modo cosi falso nei confronti di me stesso all’occultamento delle mie sincerità al mio piano razionale maledetto, capace di farmi del male per i suoi piaceri, come capace di rendermi conscio di questa cosa, a risultato di un’elucubrazione non certo sbrigativa, non inseribile nelle quotidianità che ci propongono. non sono sicuro di poter condividere queste cose con chiunque, infatti, spesso, la mia interpretazione di questo spazio ricade  in quanto non potrei dire altrimenti, in una collocazione giustificata di quanto non venga capito, o di quanto la razionalità, in un rapporto a due o più, non si sente di proporre, per degli imbarazzi mentali che mi sarei presupposto, con i dovuti tempi di lavorazione, di sconfiggere per liberarmi. è così che gli occhi si spossano, voraci di conoscere, calpestano le illusioni che ogni giorno ci invadono, che fanno comprare alle persone delle scarpe che facciano rumore, contro ogni senso di civiltà. perpetua e conserva blanda la nausea tipica della disorganizzazione alimentare; dissapore di un ritardo apostrofato in ritmi che non possono avere collocazione in quelli che sono equilibri riconosciuti tali da un modus vivendi al mio concepire amaro e privo della consapevolezza di differenze di realtà  biologiche. è un mero tentativo di complicare quanto ogni intelligenza, essendo tale, ha carpito nelle riflessioni più intime; ecco, ecco il termine che non trovai in precedenti riflessioni: intime.

spengo la luce, tolgo la dimensione abituale allo spazio in cui impiego il più del mio tempo. sfondo le porte che impediscono di stare solo completamente. allargo il punto di vista ai 360° che sono obbligato ad avere attorno, a causa della presunta infinità dello spazio. smuovo polveroni a distrarre i vicini, vorrei essere costantemente attorniato da nubi di vapore fresche, e non permettere a chi mi abbraccia di vedere nient’altro che noi due, perchè è un momento che richiede sì concentrazione. potrei rilassarmi alla vista di enormi travi di legno grezze, a sostenere quanto mi isola, nonostante la costante percezione dello spazio attorno mi sia d’impaccio ad una pace irrangiungibile, che l’animo, ancora esso sciocco, presume di poter raggiungere in vie estranee all’illudersi. fff. come il gatto che vorrei essere quando ho bisogno di silenzio e di abitare un albero.