con sguardo serio lascio sorridere chi mi sta accanto, aspetto con ansia tipica di chi ha già vissuto l’esperienza che il suo cervello scorpori quelle persone a cui ha dato origine. linee grigie quasi perfettamente diritte, sul muro bianco, a descrivere la nostra distrazione nello spazio, nella stanza gigante dove ci raccogliamo a disturbarci l’un l’altro, perchè non possiamo avere il nostro studio. immagino degli occhi alle mie spalle che scrutino i miei movimenti, che cercano di capire i miei pensieri, come io, spesso, cerco di raggiungere i meccanismi del pensare altrui; sono tutti troppo impegnati a mentirsi. mi servirebbe solo una scrivania immensa, un piano piatto su cui affrontare la tridimensionalità sulla carta, sulla quale costruisco i piani che mi porteranno alla mia pacifica distruzione, per condannare ciò che uccide più della morte. come da bambino, vorrei vedere più fuoco, quando la notte veniva colorata dalle azioni in malafede di disperati cronici, soggetti al controllo di una dipendenza alla sofferenza. poco raggiungibile lo sfumare al verde dell’inizio della primavera. muovo i bicchieri sul tavolo, cerco la perfetta disposizione di geometrie che non so disegnare, cerco quella rappresentazione vicina al concetto di perfezione quando fine a se stesso, alla disposizione ideale di oggetti trovati casualmente sotto il naso, dopo la lunga strada che alcune riflessioni hanno preso. il bianco si prende gioco della maggior parte dei nostri desideri, ci distrae posizionato in angoli predisposti. il profumo di un terreno umido, il colore di quel cielo solo nascosto dai palazzi; i volti che invecchiano sui mezzi, tornando a casa alla stessa ora ogni giorno. collettivi di persone che dimenticano di possedere un’anima. il legno chiaro ci suggerisce gli anni che ci metterà a scurire, il colore che da bambino cercavo di raggiungere mescolando tutti quelli che possedevo, e non bastava, era un colore che non avevo mai visto e mai avrei voluto creare, quel colore che non ho mai trovato. vorrei altre dodici persone con me ad urlare nella stanza dove possiamo fare rumore, a cantare quell’assoluto di fastidio continuamente con 15 apparati respiratori, senza permettere la minima pausa al totale che sa farci vibrare quel millimetro parallelo alla nostra pelle. avviciniamo i nostri standard al contrario della normalità che definiscono quelle persone di cui abbiamo schifo, senza forzare quel naturale già essere tale del nostro vivere. i chilometri che fanno i pezzi di carta nessuno li ha contati, insomma, i chilometri che ho percorso su dei pezzi di carta non li ho mai contati, e credo nessuno l’abbia mai fatto. il tempo definisce le sue imposizioni ed allo stesso tempo mi avvicina a te. ammorbidisco gli occhi.

“come ti vidi m’innamorai. e tu sorridi perché lo sai.”

a. boito