linea.

patetico mi affaccio sul mio giardino giudicando quanto nel tempo mi è capitato di collezionare. mi rendo conto in questo momento di non sapere come interpretare le nuvole; non che sia mai stato impeccabile nel farlo, ma ora, sicuramente, non saprei proprio da dove iniziare. misuro i miei movimenti e mi immagino fuori dal teatro dove solitamente opero e mi vedo perso, incapace di reggere il peso di una situazione pregna di se stessa. forse ho solo sognato cose che continuano a illudermi riguardo alcune intuizioni, forse ho semplicemente molto più bisogno di quanto sono convinto di avere bisogno. allegro, rido con le persone con cui ci accompagniamo a vicenda nelle giornate. non avremmo assolutamente paura a raccontarci la verità, quello di cui abbiamo bisogno sono solo gli elementi a conferma degli sforzi della nostra razionalità. imbocchiamo il vialetto di ghiaia, cerchiamo l’ombra isolata che sappia ristorarci; ci affidiamo alla freschezza del nostro sentire per esorcizzare la presenza dell’umidità sulle nostre ossa affaticate. l’attenzione viene costantemente richiamata all’ordine di cose lontane dai nostri desideri, facili distrazioni per la nostra esigenza di ricevere; stiamo bene insieme ma nessuno dei due ha da dare all’altro quello che cerchiamo, un po’ perché cerchiamo quasi le stesse cose, un po’ perché entrambi ci innamoriamo spesso, sbagliando, di ideali. ci stendiamo e riposare darà sicuramente pace ai nostri desideri, anch’essi dovrebbe talvolta dormire. irrimediabilmente quando ci addormentiamo la temperatura si abbassa, i vortici allo stomaco aumentano, e la brezza fresca disturba il nostro riposo. eravamo assolutamente convinti che risposare ci avrebbe giovato ma, ultimamente, il risveglio è angusto e poco rincuorante. lascio che il panico mi avvolga, non ci trovo niente di nuovo.

immobile, il mio silenzio percuote solo chi si è imposto di essere felice. non pensavo che fosse così facile prendersi in giro. quanti errori ho commesso mentre cercavo ossessivamente qualche segno per strada? non possiamo pretendere di trovare qualcosa di nuovo in giro se facciamo lo stesso percorso, mio caro. il collasso delle mie capacità mi si presenta sempre un po’ di soppiatto mentre credo di poter avere in pugno la situazione. so benissimo a cosa pensare, oggi, quando per l’ennesima volta mi ritrovo ad osservare il panorama da solo, so benissimo che si presenta come l’unico vero inizio di finale di ogni trama che mi impegno a vivere ed intaccare. collaboro con il mio istinto e non mi stendo al sole a cuocere la mia bruttezza, non ne trovai mai piacere al farlo. insegno al mio corpo i suoi limiti e lui mi suggerisce i suoi desideri. la morsa allo stomaco stringe sempre più forte, non credo di sbagliarmi. sto mischiando pezzi di puzzle diversi e pretendo di convincermi che ne potrò cavare qualcosa. indago il concetto di verità e spero fortemente di sbagliarmi, non può essere così anche questa volta. mi ricordo velocemente che se volessi vedere il quadro completo dovrei scorporare i pezzi che ho accumulato gli uni sugli altri, è l’unico modo che mi rimane per evitare di impazzire, come ben ricordo già successe. non mi do pena e capisco il mio tentativo di depistare ed annoiare, conosco i miei perché, so quali errori fare e quando farli.

appoggio il coltello al muro con fare poco amichevole, descrivo un solco lungo più del mio braccio, verso il basso. senza voltarmi vedo il tuo sguardo opaco. sorrido; sto solo cercando di confonderti.

non sopporto il tentativo di perfezione di alcune cose, come del muro bianco che ho appena scalfito, l’ho sentito mentire e le urla nella mia testa mi hanno obbligato di metterle a tacere presto, poi mi sono inventato delle motivazioni creative al gesto, è la verità che conservo rimarrà mia. mi concentro su quanto mi da materialmente fastidio e vedo lontano il giorno in cui potrò possedere uno spazio vuoto da arredare e gestire secondo i miei voleri. mi accomodo all’angolo della stanza e abbraccio le mie ginocchia, come ogni alienato che si rispetti. alzo il volume della musica. abbandono il mio corpo rannicchiato e mi affaccio di nuovo a quel panorama che con tanto zelo avevo raggiunto. riascolto le cose che ho detto, divento giudice ed avvocato, mi accuso e mi difendo, e prima o poi sentenzierò freddo. mi ricordo che i pugni al muro non servono a niente e trovo la stessa soddisfazione nel mordicchiare pezzi di plastica puzzolenti. sento vibrare le giunture delle ossa, devo osservare qualcuno negli occhi o sono certo che sbotterò violento in qualche modo. cerco di rievocare i colori che mi affascinavano da bambino e mi prometto nuovamente che non mi racconterò più bugie. devo giustificare i miei umori, devo essere sobrio nei confronti della mia sessualità a cui devo regalare meno attenzioni e più vittorie. punto la testa contro il sasso ardente, è l’unico tipo di calore che mi aspetta. vedo molte persone sorridere per tutta la spiaggia, hanno tutti più di una motivazione per essere dove sono. li osservo e mi convinco di dover liberare il mio spirito dalle impalcature che lo limitano. non capisco e non mi piace il silenzio che mi circonda; è l’espressione di una tacita verità che mi permetterebbe la tranquillità. ingoio a fatica sostanze maleodoranti per distrarre la mia percezione. mi affosso sulle solite convinzioni, finché non porterò ad evoluzione i miei pensieri forse non posso pretendere che tu possa raccontarmi qualcosa. cos’è successo? sarò sincero..non capisco. scelgo una branda e accomodo la mia stanchezza. non passa minuto che i miei dubbi non sedino la mia concentrazione. metto da parte quanto ci siamo detti, nonostante l’imprecisione del nostro comunicare. affloscio la tensione sulla mia pelle e cerco di rendermi gradevole nonostante l’astio spinto dai miei pensieri. mi sento smarrito ed abbandonato come ero sicuro che questa volta non sarebbe successo. me lo ripeto continuamente: spero fortemente di sbagliarmi. ho le mani macchiate di me stesso. faccio in modo di essere presto nauseato dalle mie paranoie. completamente nero di fuliggine in volto e sulle parti scoperte del corpo, cerco di domare il fuoco che sta bruciando la mia pazienza, presenza infestante in quello che solitamente mi distingue. sto distruggendo la mia integrità al solo scopo di poterla ricostruire senza le falle che l’hanno sempre abitata, cerco di rendere lineare il mio già strano comportarmi. i riferimenti geometrici non saziano la mia capacità espressiva, allora stendo strade in boschi fitti come il mio cuore. l’istinto è quello di perdermi nei suoi meandri, seminando quei fascini che mi fanno rallentare il cammino. ho saputo allenare il mio sguardo e i miei movimenti ne hanno tratto notevoli vantaggi. se non parlo di te oggi è perché ti sto pensando più del solito e, quindi, potrei facilmente sbagliarmi. il diluvio abita il mio umore, su cui piove ormai da troppo tempo, sarebbe tempo di siccità e di far germogliare quello che l’acqua è in grado di cibare. accuso la logorrea delle mie ansie, e quante cose io mi stia ripetendo che già conosco e che non vorrei sentirmi dire. è tempo di essere sicuri di quale sia il muro adatto su cui sbattere la testa e cerco di individuarlo. mi accomodo allora sulla barca che sono sicuro mi accompagnerà ad uno sgarbato naufragio. mi ci vorrà molto tempo ad analizzare quanto illusoriamente mi preoccupa, il boccone da digerire è infinito. la dimensione che raggiungerei in questo contesto al tuo fianco potrebbe essere la mia vera vocazione, il circuito ideale alla gestione della mia tensione interna. sarebbe lo scenario più costruttivo alla realizzazione della tua presenza nel mio io. ora sono tranquillo, mi sono sfogato e sono sicuro di aver sbrogliato un accumulo tale da aver risvegliato la grazie che naturalmente ho scoperto di conservare. rimetto in moto la macchina dei ricordi. rimando al vissuto che ha formato la stabilità del mio sguardo. provo a rammentare dove nascondevo i miei tesori; che fossero questi un disegno o la carezza di un’amica più grande mentre mi faceva dei complimenti. si dice che ognuno raccolga quel che semina, e non sono sicuro di aver mai seminato nulla o magari, mia fortuna, sarebbe bello scoprire d’aver inconsciamente scelto i semi che richiedessero più tempo di tutti e allora non starò certo ad aspettare e mantengo quello che sarà lo stupore del giorno di raccolta. il problema è che non riesco a essere tranquillo, non ho la capacità di non essere completamente sedotto dal tuo odore. la tua percezione non ha magari molto di distante da quella altrui, ma lo sviluppo che le hai regalato saprà darti un buon ritorno a fatica debita. nella confusione di tutte le cose che mi hanno preso a spintoni non vorrò mai fare conto, mi siedo al tavolo con la mia pazienza a tirare le somme. l’allenamento che ho regalato alla mia fretta saprà tornarmi utile presto, così mi sembra di intuire. a cavallo dei ricordi, ancora una volta, mentre continuamente ripeto continuamente ripeto continuamente. all’interno del recinto della mia psiche permetto solo a mantra esausti di tenere la compagnia di quanto poi mangerò. aspetto la fine della pioggia per poter respirare fresco. il salotto è pronto, le tende rosse porpora sono al loro posto. è tempo di alzare il culo mauro, non mi sembra tempo di capire, i sogni ti stanno confondendo sempre di più, mi sembra razionale sia arrivato il tempo di dormire di meno. accarezzo le tende rosse e mi armo di respiri e pedalare sarà il mio regalo per stasera, la sveglia suona presto ma non si può sprecare una serata così e le strade la notte sempre deserte. c’è aria di un cambiamento che non riesce a scavalcare l’uscio e rimane vittima di se stesso. non aver paura di capirti mio caro. sorrido alla cenere, è simbolo reale di quanto vorrei essere oggi, fertile e sterile, innocuo, che porta con sé il ricordo del disastro e la pace dell’arso. ho creato in me stesso un portale di desideri che ti ha scelto come sua regina, sarebbe bello lo capissi da sola, perché purtroppo non sono bravo negli inviti. telepaticamente continuo a lanciarti quello di cui so tu hai bisogno. è tempo di chiudere gli occhi e di alzarsi dall’agio, è tempo di continuare a ripeterselo. accarezzerei la tua pelle come i petali soffici di un fiore senza colore, per me simbolo della ricostruzione di qualcosa lontano dall’armeggiare del mio istinto sul tuo candore se solo fosse autunno ci piangeremmo addosso come fuochi che hanno deciso di ingrandire l’un l’altro il vigore che si portano dietro ad ogni stallo temporale che definisce la crudezze delle proprietà di un domani edificabile sulle frequenze di assoluto ricordo degli errori che ci hanno portato ad incontrarci prima che fosse troppo tardi e aver perso il tempo che con foga abbiamo cercato di non sprecare ripetendoci quotidianamente che non ne valse la pena quella sera di trastullare la propria noia sarebbe sì opportuno indagare con le mani la nostra sessualità e porre atto alla crescita di quello che ci permette di non invecchiare di quanto sa mantenerci coerenti con il buon gusto che abbiamo imparato osservando gli errori degli altri sempre intimoriti dalle ombre che si sono costruiti imponendosi lo stare fermi sprecando la possibilità di migliaia di passeggiate che ci rendessero grazie e quel sole che non ci vorrebbe mai a letto che non fosse che per amarci e il delirio dei nostri ma non è che ti sei innamorato amico?

mi sa di si mio caro.