prvdentia carnis mors est.

l’accademia angoscia il nostro senso indipendente di concentrazione su quanto agisce nei nostri umori. non diamo ascolto alle fanfare di persone che non hanno mai camminato nude sotto la pioggia. si ribella il colore dei miei occhi, scuote la sua posizione e cerca di distrarmi e dare possibilità alla mia noia di portarsi altrove, mentre i miei pensieri vengono interrotti dai vagabondi girovaghi ed il loro bagaglio di concetti da asceti da marciapiede che mi fa sorridere, ingannando le idee di questi iper illusi. siedo sulla pietra piana e irregolare, ascolto il canto di una pioggia che mi fa invidiare le creature selvagge. ora preferisco questo mantra al silenzio che abitualmente lodo. le particelle umide che si appoggiano sulla mia pelle, e mi rendono tutto più semplice, godibile. scopro l’abisso che si crea tra il mio stomaco e il mio cervello, e non riesco a convincermi di tutte le strade che non mi porterebbero alla paranoia. cammino lento a passi regolari, cerco di capire cosa abita veramente quei spazi tra i miei organi. sento che vorrei stringerti la mano e guardare i tuoi occhi parlarmi ed esaudire le mie note e non rivelate volontà. scopro che la mia pelle funge da contenitore di un fuoco perpetuo alla presenza della tua totalità nei miei pensieri, e cerco di non bruciarti quando ti accarezzo. non posso privarti della presenza di questo ardore che invade la mia personalità. vedo che i tuoi occhi provano a nascondere una sofferenza radicata nel più vicino punto all’anima. non trovo pace per non riuscire a capire cosa questo malessere comporti. vorrei aiutare il tuo sguardo a tirarsi su dal letto, a vedere quanto potenzialmente ti circonda, vorrei capire, nel profondo, quanto questo male sia spirito o corpo che intacca la tua elegante bellezza. non passa giorno che ancor prima di svegliarmi non ti stia pensando, e considerando i pensieri che mi permettono di riposare disposto al sogno, non c’è momento che io non ti pensi nei momenti in cui posso essere sicuro di essere da solo, dialogante con la totalità del mio io, in quella dimensione dove non mi trovo perfettamente a mio agio, ma dove so camminare tranquillo e dove non hai timore di prendermi la mano. vorrei ripagare le sensazioni che il tuo esistere mi offre, vorrei lacrimare alla gioia del partecipare all’evoluzione di un’esistenza che non sia la mia sola, a cui, da sempre, mi sono occupato con fervore. non ho niente di materiale da offrire, me ne rendo conto che all’apparenza possa sembrare riduttivo il mio incontro, ma se è a te che sto parlando siamo entrambi consci di quanto questi elementi siano cestinabili laddove i pensieri collettivi rubano spazio all’altrui interiorità. raccontami i tuoi pensieri, niente oggi mi interessa più di essi. questi, così vivi, sanno consolare quella mancanza corrosa dall’insoddisfazione dei rapporti che siamo sfortunati ad instaurare, nella complessità del caso, a ridosso di un emisfero locale fatto di equilibri che nostra fortuna, ma non così sicuramente, forse nessuno è in grado di gestire. appartenere alle quantità di queste energie ci renderebbe alieni, io cerco di camminare sulla soglia come quando bambino cercavo l’equilibrio sui margini dei marciapiedi, e, talvolta, per forza di cose, mia fortuna, cade dal lato opposto al quale si abita, tendo a mantenermi coscienza unica e non sporcare la mia psiche con la fatica del sostenimento di due realtà così differenti, così pesanti l’una sull’altra. sento un’enorme caldo e tutti si coprono. non è così lontano da quanto stavo raccontando. allo stesso modo come la maggior parte delle droghe comunemente utilizzate, non trova alloggio nel mio corpo nervoso.

a cavallo dei miei ricordi cerco di confermare le mie tesi. faccio un fascio enorme di intuizioni, sguardi, frammenti, incontri, discorsi, idee e ne mastico a stomaco vuoto scuotendo le proprietà delle mie papille gustative, sollecitando il mio cervello a sviluppare quello che sappiamo è nel suo potenziale. sono reduce di un disastro a cui io stesso ho partecipato, in punta di piedi, mantenendomi sempre a tiro della via d’uscita, per potermi rendere conto a quanto veramente appartengo. allungo la gamba per permettere all’alluce di toccare l’acqua fredda, ne accarezzo poi la superficie godendomi il silenzio del caldo. compiango la mancata tua presenza nel mio accanto. nascondo ai miei occhi la luce artificiale di certe fronti pronte a lanciarti addosso idee confezionate da una fine plastica rumorosa tale da disturbare ferocemente la mia concentrazione. abbandoniamo temporaneamente la strada che m’ha cresciuto e troviamo un posto dove non ci sia qualcuno che non sappia bene cosa guardare. non ho fretta, aspetto quanto necessiti e qualunque sia il tuo futuro volere, non sono solito a obbligare i miei desideri. mi strofino gli occhi, esco alla luce; penso che sia inutile ricordarmi che sono affacciato ad un ideale, me lo ricordo e reagisco con quel classico “lo so” che comunque rimette la sguardo per terra. osservo i granelli di sabbia e mi chiedo in che modo un giorno potrò venirne a capo. lascio che la brezza accarezzi il mio viso come, appunto, nessun altro che non fosse mia madre ha mai fatto. chiedo al mio intuito quant’è che dovrei aspettare; sono sicuro di aver fatto tutto bene e mi convinco che un giorno si renderà conto da sola di tutto e capirà quanto ho solo voluto metaforizzare e solo quel giorno inizierà a farmi vedere che lei è veramente vicina al mio ideale, e questo lo so per certo. do cibo alle mie speranze, avvicino il mio olfatto alla durezza dell’aria. oppongo ad alcuni sorrisi obbligati, mi rendo conto di non essere assolutamente solo e riconfermo che quanto di più soddisfacentemente ho ottenuto è stato ottenuto con il tempo, con la pazienza e con l’aver dimostrato che quando parlo non mento. sono sicuro di potermi dire contento e aspetto che la tua gabbia sia finalmente aperta. critico anche dove sia posizionata questa, mi deprime chi si ritrova spettatore della tua umanità, ahinoi, sia incapace di riconoscere quanto offri. amici da lontano mi gridano che dovrei smetterla di dare acqua alle solite ossessioni, urlano che non parlo d’altro e si preoccupano per la tortuosità che ho inflitto al mio percorso. le tematiche chi mi appartengono sono le uniche che mi sento di affrontare, ricordandoselo annuiscono zitti e a testa bassa. allontano la lingua dalla mia bocca per permettere al sale di appoggiarcisi. il vociare delle nuvole si infittisce e il sole ne scopre gli spazi, esprimendo la sua potente grazia. il limite dei forti grigi diventa incandescente, mi ricorda che ogni tanto dovrei anche disegnare. approfitto della sabbia bagnata che non potrò portare con me, che non potrò rivalutare. sentieri selvaggi che affascinano la mia esigenza di esplorare. il deserto di intelligenze addormentante e costantemente sotto sedativo. provo e do forma alle complicazioni delle mie convinzioni, regalo gaudio a degli spazi bianchi che esigevano dello sporco nero prendere forme che testimoniassero vita. so quanto mi serve e mantraticamente mi ripeto che devo pazientare, e minimizzare la concreta sicurezza dello spreco che faccio del tempo, e le giornate passano, e le possibilità diminuiscono. sbagliato. quello che ci hanno sempre fatto credere è lontano da ogni realtà, come quanto è vero che l’unica lingua che so parlare oltre alla mia non l’ho imparata a scuola. quel che deve succedere succederà, non ci possiamo sottrarre né possiamo, né dovremmo, modificare le vere intenzioni dell’altro, che, comunque, nel tempo, si ripresenterebbero o represse o distrutte con le dovute macerie al suo intorno. penso che comunque continuerò sempre a dare legna alla locomotiva che spinge la tua evoluzione; è, adesso, l’unico modo che ho di amarti.