non riesco a concentrarmi. sguardo a mezz’aria e il rammarico per tutte le ottime idee che non ho scritto. sarebbe bastato poco, fermarsi un attimo e prendersi lo spazio che il cervello stesso ci toglie. sarebbe bastato poco, ma ogni tanto mi cibo anch’io di rinunce. pianto il seme e osservo, non mi permetterei mai di tentare di compromettere il corso delle cose, è già stato un forte affronto piantare il seme, a tocco delicato. spesso confondo il germoglio tra i troppi fili d’erba; semplicemente non capisco e non mi sento in grado di fare altro che fissare quel punto preciso e aspettare che qualcosa cresca, mi sembra d’aver già fatto abbastanza. giro attorno. mi concentro sullo spazio e trovo la soluzione al mio caso più appropriata. all’elaborazione dei fatti il cervello cerca di farmi credere che non ci siano più energie, e lo stomaco risponde portando alla gola tutto ciò che gli ho infilato con forza, con ossessione. cerco di bilanciare i due punti di vista, e ne risolvo con droga semplice, legale. inizia l’altalena percettiva, i suoni si gonfiano, gli occhi collassano, lo stomaco si ingrippa e i ricordi giocano rincorrendosi sorridenti. niente di più comune nella mia testa, la familiarità di quel momento particolare, così inseguito e raggiunto a fatica, così semplice quanto gratificante. metto al mio servizio degli specchi in modo da non riflettermi direttamente. allargo il mio campo visivo preoccupato dal continuo tentativo d’unione tra le palpebre. faccio una riunione con i miei impegni e fissiamo delle priorità. sguardo basso e concentrazione sui margini del visibile. cerco di affrontare quello stato di percezione che vedo negli altri così attivo, sarà che sono troppo abituato ad osservare quello che mi interessa direttamente. una gittata d’acqua, la reazione dei muscoli del cervello, dei pensieri che vengono scossi come in un terremoto e l’impassibilità dei tratti espressivi, di un viso stanco di portarsi dietro la sua storia. come rinnovare qualcosa che non è stato ancora scritto? ci sono solo un sacco di introduzioni abbozzate. il quaderno degli appunti scalpita, si sente solo come il padrone e triste vede chiuse all’interno di sé un sacco di idee abbandonate. serve combustibile che non siano le droghe già abbandonate, troppo facile. serve combustibile che non sia il cibo, categoria in abuso d’assunzione. serve qualcosa che bruci senza fare fumo, che scaldi il ritratto del mare impresso sugli occhi. serve una lezione paterna e uno schiaffo da uno sconosciuto. serve più dell’amore di un amico. la capacità che mi manca di imprimere un ritratto freddo, che non trattenga tutte le storie che in qualche modo hanno accompagnato la sua realizzazione. un canto vicino ma irrintracciabile. una voce esausta con un sibilo d’aria descrive la forma della sua essenza, perfettamente irregolare, affascinante come una cascata che cambia continuante forma; la saggezza estetica della natura. la progettazione razionale dell’idea non ne permette la messa in atto. l’insicurezza ci mette la firma. abbiamo più d’una collaborazione da sconfiggere e alla nostra età dicono sia niente. forse è il vento che si è messo a cantare, con l’eco delle fabbriche sullo sfondo che disegnano l’impossibile. la reazione della mia espressione è drastica, contraggo completamente il viso e mostro quel ragazzo che tanto ferocemente proteggo, come la leonessa con i suoi cuccioli. nella gerarchia della mia psiche tutto ha senso, sarà che siamo tutti autori dello stesso discorso, che nessuno cambierà mai niente. alimentiamo lo stesso organo unico, chi con le idee, chi materialmente, ma non possiamo esimerci dal che la terra gira indipendentemente dal nostro arguto pensare. ogni mio passo e ogni mia frase equivale al ribollire di un vulcano. è il mio ruolo nel tutto, e il tutto non si comanda.
partecipo coscientemente a principiare una mia crisi, ponendola nei confronti della mia pigrizia. mi impongo di credere che esiste un punto di non ritorno. una voce netta, chiara, da lontano sentenzia la sua opinione, e mi distrugge. questa consiglia di non inseguire il nulla che ho dipinto a mio piacere, come si soggiogava l’asino con una carota appesa di fronte al suo muso. rompo la carta che copre il pacco che mi è stato donato e irrimediabilmente mi si presenta vuoto. i simbolismi che ne derivano sono assolutamente portati al farmi riflettere di per sé e nessun altro sottintendiménto metaforico; ma questo lo capirò un sacco di tempo dopo. intanto è feroce il fracasso che circonda la costruzione del mio silenzio, mi impone a delle condizioni che probabilmente non ricercherei, ma sono queste ad accompagnare la mia esistenza, nel mio silenzio, con gli occhi che non sorridono. forse non mi sono raccontato del tutto la verità, e a ripensarci forse non ho smascherato tutte le volte in cui obbiettivamente l’ho fatto. non sono sicuro di poterne parlare ora, come se niente fosse, senza farti vivere tutta la fatica che c’è voluta per pensarle queste cose. è una rapina continua quella che esercito sulla mia anima. non posso fingere di essere tranquillo, e questo comunque mi permette di sorridere sinceramente, riducendo le volte in cui lo faccio ridicolmente. schiarisco la voce non infondendo coraggio nella mia intenzione di parlare; ti racconterò quello che devo con un discorso incomprensibile, scritto con i geroglifici della mia mente, incomprensibili in modo concreto anche alla mie capacità linguistiche. grazie a questo posso essere investigatore incredulo del mio stesso linguaggio.
lasciamo spazio ai talentuosi. abbandoniamo le giustificazioni della nostra noia. costruiamo il coraggio di lanciarci nel vuoto.