ventiquattrore.

pongo seduta stante le basi della consolazione che nel giorno detto unico io conosco. i piani perfetti non sono mai esistiti, a dimostrazione di questo l’organizzazione cospirativa degli ostacoli prende forma. mi hanno educato a pensare che il giorno unico fosse fonte necessaria di qualcosa che non mi è mai appartenuto, ma che ho sempre tentato di evocare stando alla ricerca di quella semplicità che fosse in grado di regalarmi un sorriso da rivolgere al mio interno, alla mia schiaffeggiata intimità. è a quel lato di me a cui avrei felicemente regalato respiro, uno di quei pochi giorni in cui organizzo una pausa che possa permettere al mio sguardo di non notare tutto e ridurre la porzione di una messa a fuoco già faticosa. cerco di sbrogliare interi gomitoli che ogni giorno si scontrano e riempiono il mio vivibile, il volume della mia pazienza. esercito lo sfregamento del collare ai punti più sensibili e definisco le misure dei miei limiti. mi concentro a tal punto da non essere in grado di dare posizione alle tue vicende nonostante queste disegnino il principale mutamento di tutto nel mio progetto. mi invento una puzza di bruciato a cui io stesso stento a credere; non mi sembra ci sia niente di sbagliato nel procedere delle vicende, i fatti dimostrano alla mia puntualità la concretezza del loro essere, finalmente sono sicuro della vertigine che percepisco solo quando disteso appoggiando non completamente la schiena sulla superficie che mi ospita.

fortuna la struttura che permette di reggermi in piedi ultimamente si ripresenta stabile e al mio servizio; l’esistenza di tanta gioia prima d’ora solo nella memoria infantile aveva lasciato qualche traccia. sapevo di non potermi sbagliare. taglio netto ai timori, vaporazione di quelle energie nere che mi hanno guidato attraverso strade deserte nella notte. sei custode di una delicatezza di estrema rarità. riesco a sorridere al solo pensarti, beato. spengo la luce. metto comodo il mio senso d’appagamento, gli massaggio la testa e gli ricordo di non adagiarsi troppo. non mi priverò di nessuna soddisfazione e manterrò paziente il mio impegno. sento la tua presenza. mi stendo e raccolgo i miei difetti ad assumere minor spazio possibile; sei sdraiata accanto a me e ci teniamo la mano. il silenzio attorno fa si che la percezione possa aumentare il volume delle vibrazioni d’aria autonomamente. sto offrendo all’organismo un’esperienza unica. si creano sensazioni che hanno le stesse proprietà del cibo, e solo una volta sazio potrò addormentarmi.

sento la necessità di abitare uno spazio ampio. mi raccolgo in uno dei limiti architettonici che mi vengono imposti, applico al mio sguardo l’acquisizione delle proprietà delle simmetrie e trovo fascino in angoli dimenticati e sottovalutati. catalogo i difetti del tempo espressi a causa della loro unicità nell’ambiente dove sono nati. induco umori all’utilizzo che viene fatto di certi oggetti. non posso più sopportare tale forzatura al silenzio, così innaturale e ingiustificata in questo luogo. sbadiglio nei confronti del crescere della mia impazienza in un luogo che non sa più ospitarmi; è violenta anche la reazione del mio stomaco. deduco il mio sguardo dal movimento spontaneo dei nervi facciali. capisco che non è più il luogo dove mi trovo ad essere il mio problema. ho inconsciamente avviato quel processo a disturbo di equilibri che razionalmente ritenevo solidi. insaporisco il mio palato, cerco di drogarmi. non è possibile fermare un tale divampamento, qualsiasi tentativo rimbalza o trova potente ostacolo al suo operare. mi concentro alla comprensione del mio battito cardiaco. forse oggi sono più vicino di quanto pensi al riconoscimento delle mie preoccupazioni. d’istinto osservo cosa succede fuori dalla finestre e fortunatamente scopro di essermi allontanato a sufficienza da chiunque, non potendo più scappare da quei pensieri. non sono più in grado di trovare rifugi, né tanto meno di rifugiarmi. abbandono le certezze di alcuni studi obbligati e mi concentro sulla mia percezione, ancora una volta. il coro alza la voce e mi ricorda del suo sguardo assente a quelle altre realtà che in quel momento vivono la stanza. non dovrò più intercedere all’errore di dimenticarmi della quantità di altre cose che in uno spazio delimitato con me esistono. mantengo il collo bloccato  e lo sguardo di ghiaccio. non posso permettere al cervello di giocarmi uno dei suoi espedienti per evitare l’istintiva e necessaria violenza che pongo a quelle conoscenze che mi hanno, per anni, fatto passare per vere. sempre più non posso che basare le mie verità sul mio vissuto sensoriale. le mie idee solo da poco possono prendere forma nei miei movimenti. capisco, a passi lenti, le distanze che mi concedo di affrontare. urlo contro quel mio lato così fragile e aggressivamente cerco di spronarlo al meglio. abbaglio il mio sguardo con luci fredde e obbligo il mio udito a non poter ascoltare nient’altro che quanto abita in mezzo al suo stesso apparato. mi aggrappo a quanto si dimostra più grosso di me e cerco di trascinarlo anche solo di un millimetro testando le possibilità e la matrice delle mie ansie. mi spargo di colori che possano distrarre lo spettatore e rendermi sicuro delle insicurezze da indagare in un momento di spensieratezza tale da condurmi all’indagabile. affronto il mio respiro. aggrotto le sopracciglia a tal punto da non riconoscermi. sputo sullo specchio con la violenza di chi sta crescendo. non mi sembra un buon momento per disturbarmi. indirizzo ad un punto preciso il fulmine della mia tensione. le mie dita feriscono le mie mani. calmandomi capisco che oltre non potrò spingermi, per ora. le nuvole si avvicinano. buon compleanno mauro.