goodbye tomorrow.

il posto dove andrei volentieri a fare una passeggiata, oggi, è molto lontano. come sempre mi viene spontaneo collocare gran parte del mio immaginario altrove, in una sfera d’irraggiungibilità talvolta economica talvolta fisica. le lunghezze hanno sempre saputo accompagnarmi, negli affetti, nei sogni. sarà che sono sempre stato abituato a fare molti chilometri per raggiungere quelle piccole realtà a cui la nostra famiglia si è legata, dove poi, ognuno, vi costruiva la sua dimensione, il suo equilibrio. realtà spesso molto differenti le une dalle altre, tutte con quel fare domestico e sincero. io, scricciolo, saltellavo qua e là disseminando spesso panico di smarrimento. la mia curiosità era tale da potermi guidare attraverso situazioni personali e chiuse, che s’aprivamo al mio non bussare molto forte, destando poi io la curiosità altrui sulla mia postura, sul mio sguardo. le innumerevoli conoscenze portate a termine in questo modo, nelle mie corse attraverso lo spazio, spesso al buio, perchè sotto il sole mi si nota molto di meno. ricordo i racconti di chi mi vedeva piccolo sulla bici che correvo; urlavano il mio nome ma il walkman urlava più forte. poi la spiaggia verso sera, quando il tramonto trova la sua perfetta cornice, a piedi nudi verso il grande sasso e ritorno. lo sguardo sul moto silente dell’acqua a largo. i giochi prendevano forma semplice, non c’era bisogno di molto altro. i sassi lisci permettevano di farmi fare grandi disegni, e la sfida era di farli profondi abbastanza che resistessero alla prossima onda. finchè la mamma si affacciava al muretto e mi chiamava. grande fortuna avere come unica barriera dal mare il muretto e la spiaggia. poi arriva la sera, si cena quando la luce sta per spegnersi. poi il relax di quell’oretta in cui si avvia il rilascio del grande calore assorbito in tutto il lento giorno. poi si va in giro quà e là. sempre abbracci, sempre grandi risate, sempre scherzi, sempre la necessità di isolarsi ogni tanto e respirare. poi la notte a cui pochi sanno resistere, sempre qualcuno che si abbandona, tra la sabbia e le strade bollenti. a far sfoggio di buon umore. poi si torna a casa, e la notte prende forma nei suoi colori, la luna decide il grado di luminosità dei suoi granelli. le ore che non si contano a fissare il cielo, il buio che con tanta fatica talvolta non si trova. le agende che raccoglievano tutte le riflessioni riguardo le situazioni distanti, da cui mi ero preso riposo, per fissare l’orizzonte e sognare quel giorno in cui mi sarei perso alla ricerca del niente nel mare aperto. gli insetti che escono dalla sabbia e scappano. i vermi sotto i tronchi marci di legna arrivata da chissà dove. le dighe per fermare il torrente inquinato e salvare il nostro mare. la piscina zozza da cui tirar fuori i bambini in vacanza e spiegargli che c’è il mare non distante da lì, forse non l’avevano notato. convincere i genitori che non c’è nessun problema, che siamo dei locals con bagagli di avventure che talvolta fanno guida ad adulti un pò spaventati e costretti a fidarsi di marmocchi che sghignazzano e fanno tesoro delle loro mille storie. tra le distanze si aggiunge quella del tempo, del tempo cane. la notizia che la povera nonna è alle strette, che non sono più gli anni ’80 e che quella casa potrebbe cambiare proprietà, perchè se no non si campa. vorrei fare quella passeggiata proprio lì, con il limite dell’acqua al fronte, che sa darmi sicurezza delle direzioni che non prenderò, di quel limite che mai avrò capacità di attraversare. di quei pochi metri minimamente a me noti che, però, quando giocavo sott’acqua sapevano darmi l’illusione di volare, con amici più grandi dieci anni di me. quante buche scavate per trovare altra acqua. io che mi chiedevo che ci fosse. e quelle macchie bianche nel cielo, che accerchiavano tutte quelle stelle che ogni tanto abbiamo provato a contare. altre distanze stanno per aggiungersi al peso della gobba imbruttendo il mio rimanere fermo. per oggi mi accontenterò di una passeggiata nel vecchio borgo e di quella piazza che tante letture ha ospitato, gentilmente e favorendo il silenzio del freddo.

fiero il mio occhio s’è dimenticato che esisto, facendo finta di niente spazza sul proprio sentiero sterrato solo illudendosi di pulire, continuamente spostando la polvere. trova pace al pensiero di occupare bene il tempo, il quel concetto così culturale di bene, di ben fare, di concretizzare quello che non filosoficamente è il tempo. acqua di rose a profumare l’ambiente, lampade ben sistemate si rivelano più importanti del mobilio di cattivo gusto. è sera e si ben spera. amici che urlano che ormai è tardi, io sicuro che questa notte porterò a compimento notevoli riflessioni che al risveglio, nell’ormai albeggiante pomeriggio, verrano vanificate dalle realtà degli altri, così irrispettose, così invadenti. silente ascolto i rumori che suggestionano il mio percepire l’intorno, nella stanza, con altre poche persone, tutte assopite, alcune che pensano ma-che-fà-questo-qua? e sai com’é. tra i lamenti si apre lo spiraglio, lo scuro tendaggio si apre leggermente, tanto quanto basti a scaldare le mie incertezze; la tua figura scorge nell’ombra, il controluce ti descrive. riconoscono la tua bellezza da un proiezione ombrosa del mio desiderio di vederti. soave e fioca la musica accompagna l’aumento del battito cardiaco. il mio sorriso potrebbe essere interpretato come incerto, la quantità di sincerità nel mio muovermi sembra evidente. non v’è lamento languido nello sbattito di palpebre, tutta la concentrazione è votata a controllare il timbro vocale per lo sfiato liberatorio, da contenere, da dirigere, direttore dell’orchestra che mi sostiene. pallido aggrotto le dita, strano discuto su dettagli irrilevanti. il suono basso mi emoziona e forte mantengo il viso inespressivo. è danza a forma d’arte nel mio pensare in quel momento, che dura molto a causa del non averlo mai vissuto. riporto lo sguardo sullo schermo. sorrido e godo dei pochi attimi di quel rifugio che, in pochi giorni, a saputo permettermi di sentirmi a mio agio, quando camminavo, mentre ti pensavo.

il venire ignorato, l’aqua e il volo sul monte.

non più un film ho guardato senza che mi venissi costantemente in mente, al desiderio di condividere il contatto fisico durante le sensazioni d’immagini e suoni quando queste sono sposate ad arte. mi distraggo e non porto a casa tanto di quanto è offerto. come avessi deciso che mi manchi qualcosa di esistenzialmente presente nel mio oggi, correlabile allo sviluppo del mio domani, del tuo essere io oggi, del tuo essere io domani. come questi due sviluppi posso immaginarli vicini? sembrano accompagnarsi bene nei miei di sogni, che non sono per niente rari, ma astratti, nebbia sui monti, assorbono tutto e aperti gli occhi sono già storie dimenticate. ma i loro messaggi sono chiari, non sono l’unico a crederlo. ci ascoltiamo a vicenda e telepaticamente so ch’eri presente con me mentre cercavamo posto in quella situazione che non abbiamo mai vissuto. nuoto fedele nel verso del mio istinto, coloro di bianco lo sfondo sul quale ti adegerei per osservarti sorridente e, oserei dire, beata. dove ti immagino sei il perfetto soggetto di una più semplice cornice, manifesto del mio godere a perdifiato dell’emozione trascinante dell’abbraccio sincero, del bacio disincanto, dell’odore tuo morbido immagino. forma piatta l’altrui presenziare, il giudizio dei cuori sazi, delle menti spente che guidano in quei sentieri che non ci sono mai piaciuti, entrambi certi di quell’occhio aperto che scruta l’animo perfetto con il quale vorresti sostare nel tempo; mentre io, ingenuo, abbasso il capo e cerco di non bussare alle porte della tua intimità; io scemo. se era bello è perchè è stato così. allora evito il definirmi scemo, sicura tu di non averti nascosto quelle mie ingenuità più deleterie, i modi in cui setaccio chi non si allontana per così stupidi ostacoli. anche se ti fossi incastrata nella maglia definita, certa, forse non sai d’esser stata risollevata. buon tempo. non è finita ancora l’estate. il monte ci ha consigliato quand’è che stiamo bene. e che stiamo bene insieme, quando è il nulla che ci ha cresciuti ad essere la cornice del nostro amarci al sole, da soli, con lo sguardo dei soli alberi attorno, senza la timidezza di nascondere quello che abbiamo visto negli altri lungo tutta la nostra vita, corta o lunga che sia. aspettiamo la nebbia così magari non ci saranno le condizioni per abbandonare il nostro ben stare. il sole basta, senza troppe storie attorno, disegna gli eventi che spaventano la nostra conoscenza. incute l’ingiusto timore che abbiamo nell’affrontare entrambi il mutismo che ci unisce. mentre mi cerchi su piattaforme comode, io, al conteggio del sudore che dovrò versare, cerco di misurare le parole che vorrei consegnarti, come fosse semplice, come se avessi un anno intero per pensarci. quindi il domani è domestico, proprio ed anche per questo. mi raccolgo fiducioso nel letto che non mi appartiene. i piedi finalmente non sono gelati, mentre ritrovo il letto che meglio considererei come mio. lo guardo, e ricordo, la lunga strada e la forzata deviazione fatta per quei soli due minuti di raccoglimento, e, se ci penso, neanche sia così speciale. la forbice ha saputo confrontarsi con il tuo sguado sordo allo specchio mentre io aspettavo un tuo cenno. un fiero respiro mi da senso di attendere. ora ho capito che quel sole che riflette sull’acqua sarebbe il migliore sentiero.

“you can’t sleep? me either. let’s can’t sleep together.”

importantissimo, lo zio stranamente si affretta e ci comunica che il roseo galleggiare della luce dietro la sila non può essere ignorato stasera, ahìnoi è pessimo il punto di vista. la neve fa il suo piccolo sforzo e comunque esalta e giustifica il suo essere. occhi rossi e notti che non sanno essere digerite; diverse le ore a guardarsi attorno circondato da sedili, schermi lucenti e telefoni a servizio dei cervelli altrui, pensanti, che agiscono per il/la signor/a padrone/a. chi ha bussato sul tavolo con sguardo severo recitava il giusto oggi. ad occhi sinceri ha saputo brandire correttezza nei confronti di incerti cronici, occasionali metodisti del sapere bene stare insieme che siamo tutti più buoni: qui sempre a favore della rivendicazione dei favori è presente la cinica critica che s’infila sotto le unghie di chi dovrebbe togliersi le briciole dalle spalle. sarei rimasto volentieri nel mio letto ieri notte. voci dicono che non me ne pentirò, l’intestino già viene frustato e recluso ai loro voleri, io, piccolo, cerco un equilibrio nel silenzio dei gratuiti giudizi. tanta strada non è stata fatta per sentire i commenti che solo il chiunque è in grado di partorire con entusiasmo. saggio, oggi, conosco a memoria le vie di fuga. coerente allungo al silenzio i suoi significati più cari. libro caro che non posso leggere perchè il cervello parla continuamente, e le urla accanto sono fastidiosamente molto presenti, crudeli. tocca all’olfatto percepire la vicinanza del mare, e di nuovo a quel senso dei favori farmici portare accanto. non può esistere che io sia qui e che non veda quell’acqua, che mi ha cresciuto come alcune vie di diverse città. penso nichilistico all’avvenire di chi oggi si riempe di parole, di chi oggi fa gli eventi facebbook, pellacra e peste, simile a queste l’immaginario. sarebbe la stanchezza a continuare per me dopo. meglio giacere sul bianco divano. nella solita direzione di ieri i pensieri; nella solita direzione delle ultime settimane i pensieri prima di dormire, su un letto maggiore, con.

siediti al mio fianco, prendimi la mano.

ciclicamente si ripetono numerosi processi. a diverse tornate di ineguale raggio. come pianeti che percorrono il loro destino, i vari cicli hanno quindi diverse frequenze di ripetizione. alcuni enormi, altri miseri e fastidiosi come le zanzare nel dormiveglia. nella collisione quasi perpendicolare con questi percorsi l’intuito mi fa sempre iniziare bene, ma poi si cade nei loro moti nauseanti, e non so poi più reggere le tensioni e l’inerzie di tali energie che si muovono continuamente: a morsa di boa, alcune di queste, mi tolgono il respiro e, nella perdita dei sensi, mi distraggo da quanto mi ero prefissato di fare e così anche le speranze si perdono tra i crampi dello stomaco. disorientamento che mi rende sgarbato e debole, poco coerente e fastidioso. lo so ma è giusto che tu lo pensi e non me lo dica.

feroce la percezione della previsione errata del tuo giudizio stringe alle caviglie, a mo di peso, limitando. proprio quando cerco sincerità mi regalo sul groppo pesanti menzogne. ho sbagliato quasi a ridosso della consapevolezza diretta delle mie azioni. non ho avuto il coraggio di esporre i miei occhi, forse da sempre troppo sensibili, e impauriti si sono retratti come i tentacoli di una lumaca, viscidi e limitati dal loro stesso produrre. tu mi hai regalato i tuoi occhi, io ne sono stato contento e lusingato come mai fin’ora mi capitò. dentro un’enorme sorriso ha rallentato il battito cardiaco. mentre parlavo mi tenevo continuamente a freno, sforzandomi a tal punto da aver probabilmente omesso parti di senso al mio discorso, e forse ti ho offesa. cercavo difesa quando non c’era attacco proprio come mi scoprii di fronte a criminali predatori, che mi graffiarono gli occhi. sarà per questo che non ti ho mai parlato di quello che vedo.

ti ricordi il giorno del mio compleanno? io non molto; ricordo solo trondheim, ma nient’altro. ricordo anche una ragazza in un auto, si nascondeva il viso. ho fatto finta di non farci caso. però sembrava proprio il ripetersi di uno di quei cicli, il solito forte schiaffo ai miei errori. le mie paranoie lì come acari che inghiottono polvere; torno a casa e le testate sul legno, quasi a veder scorrere del sangue sulla fronte. se è così che dovrà andare sempre come farò a resistere? si digerisce male due-tre settimane poi inizia tutto a risplendere; quante altre volte già me lo sono detto, quasi sempre attraversando la città di notte, come stasera, come ieri. faccio finta di non aver visto e ancora una volta aprirò tutto, sarà anche per questo che vado a rilento, e misuro gli sbagli; ma ora la fatica è doversi trattenere e sprecare energie a costruire la situazione ideale dove incontrarti, la situazione che non può esistere, mentre ti sei già stancata di me, sto zitto e mi faccio dimenticare, cancello le mie qualità semplicemente non esprimendole nelle situazioni giuste, e queste, silenti, si evolvono e migliorano. lenti movimenti a pennellata, ti immagino accanto a me ovunque, a tenerci la mano. ascolto ogni cosa tu abbia da dire e non chiedo niente, voglio solo conoscere quanto tu senta di dirmi e non forzo i tuoi discorsi con domande evocate dal tuo desiderio d’essere accarezzata, ti osservo e ti amo con gli occhi, e faccio tesoro di quanto dici, chiedo poco. non esprimo apprezzamenti in forme a te comprensibili, già amandoti raccolgo ogni cosa che semini, nonstante non lo dichiari, fosse l’errore più ampio sarei contento. il grido esclama stanchezza. ti sto pensando. sto pensando fortemente a cosa dirti, mantenendo l’intenzione di non impostarmi troppo. poi arriva chi dice “non devi essere troppo sentimentale” “devi essere diretto” “non devi darle troppe attenzioni” “blablabla”. non sono mai riuscito ad impostarmi in una situazione del genere. sarò da te prima possibile.

quale colore la nebbia stasera. quale forma il respiro ancora. dove andavo io, corpo di cane. l’intuito si è rivelato espressione ebete, secondo sprecato; accanto non so. poi il tavolo, noi tre seduti ed io guardavo per terra e voi discutevate. io guardavo per terra e l’amico lavorava. mi guardavate e probabilmente pensavate che era un pò che non mi vedevate, sai com’é. continuamente pulivo le lenti, gli occhiali meglio sul tavolo. e io che faccio il contrario di quanto dovrei, quasi ausbergico essere, io ultimo ignoto immondo, che non crede nel sé fuori dalla sua espressione più mera, folle atroce colata di asfalto sulle delicatezze a contrastare i difetti, gli errori buoni, naturali. mica pioveva, ci regalava respiro nuovo, serio. non stacco gli occhi dalle linee dei pezzi di legno, voi bevete pure. dove ero mi piaceva. nella strada la coltre che evapora dai pori del mio viso, ricopre le mie buone intenzioni. non era sera purtroppo, la direzione nostra è sempre stata sbagliata. “it wasn’t me that phoned.” se mi hai visto sorridere chissà cosa stavo pensando, userò la scusa per avere qualcosa di cui parlare, sai. sembra che io faccia il contrario di quello che voglio, monografico modo di raccontare. poi a me, sai, prende sempre alla bocca dello stomaco, ma non te l’ho mai detto. sono timido, ma non te l’ho mai detto. immagino la tua figura nelle varie situazioni che vivo, come viverle in due, ma non te l’ho mai detto. sarà poco sonno anche stanotte, e il poco tempo che, in questi giorni, già, mi rimane, dovrei sfruttarlo; vorrei parlarti. scemo mi dico; anzi no, imbarazzato. sempre.

chi mi ama mi segua. chi mi vuole bene mi ascolti.

se n’é andato il vento che mi gettava continuamente sabbia nei capelli, ora si gode di tranquillità e sole quanto basta. passano gli amici, intanto, a coppie; sempre di più, uni dopo altri. da lontano mi urli che di amici non ne hai più, ma comunque ti vedo in coppia, mia cara. concentrati sul tuo punto di vista e guardami. il mio giardino sembra verde, per questo lo coloro ogni notte mentre le onde danno ritmo. amica, non ci vediamo da mesi, e neanche ci sentiamo più. mi sembra una cosa generale sai, per non parlare di come la stia vivendo io. ripeto, ti vedo in coppia; mentre io ho solo il mio giardino, che tanto curo. è bello che ve ne andiate sorridendomi, io ricambio. lo sapevo che saresti tornata indietro, lui è rimasto a sdraiarsi sui sassoni, lo invidiamo. mi chiedi di come vadano gli altri, sai, è tanto ormai che non ci sentiamo; mi verrebbe da dire che ormai non li conosco. poi li vedo in giro ogni tanto, tra loro si sentono, certo. io, non so. gli ultimi che ho chiamato dal mio giardino hanno fatto finta di non sentire, oppure hanno girato lungo; non me la prendo più di tanto. mi sento come fossi lo stereotipo di uno squalo, che gira intorno. io giro e giro intorno, per educazione senza intercedere nella circonferenza a protezione dell’intimità altrui; ma poi fughe, sparizioni, e le colpe all’ipotetico squalo aggressivo. c’hamm’a fa? sorridiamo ora, che già sappiamo  che per altri due mesi, minimo, non ci vediamo. ciao. io sono tordo, e ci ricasco, e ci ripenso. ne ho appena parlato con lei, così, mo che se n’é andata, ci ripenso. eh, non è la prima volta che scappi quando arrivo, che sgarbo. non sei la prima persona che scappa quand’arrivo, già. devo riguardarmi nelle tasche allora, vediamo. mah, in questi momenti non ho fame ma mangio, lo sappiamo tutti. ti ricordi di quel sasso dove appendevo le storielle al suo interno? ho deciso che per un pò non ci entro, non che io intenda che le mie fantasie siano diventate il tuo punto di vista, non che io lo sospetti. ho solo deciso che per un pò dovrei tornare al velo di realtà che c’è di fronte al mio giardino verde, che già verso il tramonto, consiglia il lavoro notturno, che io, sia mai, comunque faccio, non mi smentisco. sto sempre affacciato, quindi vedo quello che succede, tanto il posto è piccolo, lo sappiamo che di qua passano tutti. quando parli con altri, e ti atteggi per farti notare, io non disturbo, mentre lucido il mio cilindro della domenica. quando scappi non ti inseguo, e sempre vedo la tua pupilla che si avvicina all’estremo angolo utile a non volgere lo sguardo, <scusa ma non ti ho visto>. se sei in silenzio e cammini in linea retta io non urlo, non disturbo. se ti va di vedermi, è qui che sono, lo sappiamo tutti, e io non rifiuto, sempre accolgo. se seduci il mio olfatto e faccio qualche passo, e quanti nel mondo onirico, e tu allunghi il tuo, e si crea l’abisso, io non continuo, e, forse offeso, torno indietro. se mi sento dire <e si forse non so se allora magari però> facciamo che <tanto ci vediamo si dai che poi>. preferisco la crudeltà del mio intuito che non il beffardo muoversi di fronte, a illudere, boia. se dovessi offendere io non spargerei feci, no. se qualcuno le sparge nel mio giardino dovresti dirmelo. eheh, comoda la sdraio. se sei tu che ogni giorno cerchi, dovresti dirmelo,  non lo sappiamo tutti, sono timido. se abbiamo un amico in comune, e mi parli solo di questo, non abbiamo molto da dirci. se ti affacci e mi guardi negl’occhi, ti sorriderò, sempre; non porto rancori, sono gentile solo quando mi pare. se ti nascondi dietro i miei cespugli, siamo entrambi, si, due coglioni; io primo, però. se vivo in un altro mondo e c’ho le visioni, tirami uno schiaffo, dai; me lo merito, lo sappiamo tutti. eheh, comodo drogarsi. se sono grasso è perchè sono annoiato, deal? se non ti piace il mio linguaggio si, sono confuso, sono un ragazzo di strada, e tu ti prendi gioco di me. se non ho seguito un tuo consiglio, mica non ti voglio più bene, avrò avuto i miei motivi, eh, poi non puoi dire che non te l’abbia detto. forse ci confondiamo con il signor mauro kebler, mio vicino di casa. cosa? non capisci? non spiego sempre tutto, lo sappiamo tutti, basta. ora rifiato, mi calmo. non ripenso a quanto ho detto, no; mi sono sfogato, se riascoltassi quello che ho detto fin’ora probabilmente rabbrividerei, giusto. ok. <sai com’é se accumulo troppo poi>, beh. dovresti spiegarmi, un giorno, quando vuoi tu, senza che te lo chieda, perchè  scappare, o nascondersi, quando arrivo? così, con comodo, senza polemica. dai. cos’é? dai, su. non è il problema di quanto <cioè io pensavo che allora non ero sicuro quindi secondo me credevo>, è solo sapere il perchè; una persona fa una cosa attraverso un ragionamento, uhm, è il ragionamento che mi interessa, nun s’era capito?

chi mi conosce lo sa. chi mi conosce? uhm.

sono io che dovrei dirmi qualcosa. ma me la sono già detta, sai quante volte. escher insegna che non bisogna fidarsi della mente umana.

mi sveglio sudato, normale. i capelli appiccicati al cuscino. l’intestino, ancora, reagisce male. mi siedo nella stanza senza finestre, che mi permette il completo buio. ascolto il silenzio di quella stanza, puro; e mi rendo conto dell’inquinamento, voluto e non, che mi impone qualche rumore immaginato, come una memoria uditiva disperata, trattata male. è il discorso di qualche giorno fa, affrontato con i gomiti sulle ginocchia. ogni singolo capello era diviso dall’altro, allora. non mi ero immaginato il peggio, ma il sapore dell’ultimo dessert presagiva marciume. s’era lasciato il libro sul muretto che da sul canale. il cane correva dalla parte opposta. io, al solito, sembravo disorientato. il suono era questo. nessuno mi può giudicare, nemmeno tu. la tachicardia è tipica quando ascolto la tua immagine. corro a cerchio ed il mezzo è fertile ma l’albero tarda a presenziare. spero nel gioco che non riuscii a fare da piccolo. il bottone della luce era dalla parte opposta a noi. cercando l’abbraccio si sono incontrate le mani opposte in un perfetto incastro. benedimmo le maledizioni, nel gioire del puro. voglia ce n’era, ma le sedie ballavano e nessuno stava realmente comodo. ad ogni discorso ci distraevamo ebeti. forse anche tu facevi un sogno simile. dov’è che ci siamo visti la prima volta? ah si. footing scalzi all’ora del tramonto. non si può più da quando il mare avanzando ci ha regalato quei grossi sassi. i tedeschi non hanno capacità alimentari, specialmente all’est. ti ricordi? le grandi piazze sovietiche? lo stampo finto-american? le senti le campane? non ti danno fastidio? corre il giovine, cerca lo specchio. non ho mai mentito se non per vantarmi di risultati a cui nessuno era interessato. la lunghezza del pene? no no. la forza che avevo quando dormivo due ore a notte l’ho abbandonata, ci credevo seriamente. almeno sei stato corretto, mi piacerebbe dirtelo. ci guardiamo negli occhi e non ci salutiamo. neanche fosse passato chissà quanto tempo. non disturbarmi mentre disegno.

ti ricordi la scena in cui donnie chiede alla madre com’è avere un figlio come lui? esatto, proprio quel tipo di abbraccio.